Il sogno di Aurora

Aurora entrò in casa, lanciò chiavi e portafoglio sulla mensola del soggiorno. Rimase in penombra, accendendo solo la lampada in carta di riso nell’angolo del soggiorno. Le piaceva la pastosità delle ombre proiettate sui muri, la sensazione delle pupille che si dilatavano per adattarsi agevolmente alla semi oscurità. Si tolse gli stivali e le calze pesanti: con la pianta del piede aderente al calore del legno del parquet, apprezzò che l’inverno fosse rimasto fuori dalla porta. Mentre andava verso il bagno per riempire la vasca di acqua bollente e sali del Mar Morto accese lo stereo: la sua canzone inondò la stanza. Alzò i bassi, mise il volume al massimo. Con gli occhi semi chiusi cominciò a togliersi il maglione di lana, la camicia, i jeans blu notte fino a che non rimase in mutande e reggiseno. Tornò in soggiorno e, sempre con gli occhi chiusi, cominciò a far ondeggiare prima la testa, poi le spalle, le anche, i fianchi, il bacino… tutto il suo corpo seguiva la voce graffiante di Samuel dei Subsonica, lo prendeva per mano, si faceva portare lontano, fuori da se stessa, dal vuoto che la riempiva.

“… Aurora sogna, Aurora sogna…”

Avrebbe voluto qualcuno così. Qualcuno capace di andare a scavare negli abissi della sua anima, nel grumo nero dei suoi pensieri. A piene mani, senza delicatezza. Qualcuno capace di portarla in alto e lasciarla cadere, qualcuno che l’incendiasse senza curarsi di nulla. Qualcuno come lei.

“…Sogna una carne sintetica, nuovi attributi, un microchip emozionale…”

 Aveva bisogno di mani ruvide che l’accarezzassero, di spalle forti che l’avvolgessero. Aveva voglia di essere presa così, con forza, da dietro. Qualsiasi cosa, per provare di nuovo un’emozione.

“…senza più mangiare… e senza più dormire…”

Persa nell’estasi della danza lasciò che la sua mano si insinuasse oltre l’elastico degli slip. Appoggiandosi a una colonna si puntellò con il piede destro e si perse in un’estasi fin troppo conosciuta ed esplorata: un piacere effimero, amaro come la solitudine, che le dava solo un fugace brivido lungo la schiena e un tremito lievissimo ai fianchi. Aprì gli occhi e fissò lo sguardo davanti a sé e il sangue le si gelò all’istante: aveva dimenticato di chiudere le tende e alla finestra di fronte alla sua c’era un uomo che la fissava. Il viso era in penombra ma la bocca era semi chiusa e il suo sguardo era agitato da un unico, inequivocabile desiderio. Poteva assecondare la vampata di vergogna che l’aveva assalita, precipitarsi a chiudere le tende e farsi un bel bagno caldo, cercando di dimenticare la figuraccia e l’imbarazzo.

Questo era quello che avrebbe dovuto fare.

Invece, come obbedendo a un imperativo oltre la sua volontà si slacciò il reggiseno e si sfilò gli slip e rimase immobile, esposta allo sguardo di quello sconosciuto. La musica continuava a vibrare forte dalle casse, l’album era andato avanti.

 

“Forse, sta a pochi metri da me, quello che cerco e vorrei trovare la forza di fermarmi, 

perché sto già scappando

mentre non riesco a stringere più a fondo e ora che sto correndo vorrei che fossi con me, che fossi qui…”

 Oh sì, avrebbe voluto che lui fosse ancora lì, con lei. Dopo tutti quegli anni, ancora non aveva rinunciato all’eventualità di vederlo rientrare in casa. Quanto lo odiava quando non si levava le scarpe, inzaccherando il pavimento della sala. Qunado metteva i piedi sul tavolino intarsiato africano. Quando si grattava lo stomaco, quando parlava a monosillabi, quando la prendeva in giro per quell’aria sofisticata da snob che assumeva quando uscivano assieme. Lo aveva detestato per tante piccole cose, eppure avrebbe fatto qualsiasi cosa, per riavere tutto indietro.

“…sento a pochi metri da me

quello che c’era e vorrei trovare la forza di voltarmi…”

 Non poteva riaverlo più. Dalla morte non si tornava indietro. Richiuse gli occhi: poteva sentire la sua pelle bruciare in ogni punto in cui si posava lo sguardo dello sconosciuto oltre il vetro. La sola idea che lui si stesse eccitando guardandola la fece nuovamente venire, perdendo il controllo. Da mesi non provava un’emozione così intensa, da mesi non si sentiva così viva. Sentì che doveva averlo, ad ogni costo. Voleva di nuovo quell’emozione, per intrappolarla e viverla ancora e ancora e ancora. Non poteva perderla, non poteva lasciarla andare così e mentre combatteva con la parte razionale del suo cervello, che la metteva in guardia dal far entrare in casa sua un perfetto sconosciuto, qualcuno suonò alla porta. Si staccò di scatto dal muro, frastornata, come se un getto di acqua ghiacciata l’avesse investita in pieno. Guardò verso di lui, oltre il vetro: era sparito. Una morsa le strinse lo stomaco, facendole tremare le ginocchia: era lui, ne era sicura. Gli avrebbe aperto? Sapeva che non avrebbe dovuto ma in quel momento non desiderava altro. L’avrebbe presa così, contro il muro, senza dirle una parola? O sarebbe stato tenero, prendendola per mano e adagiandola sul letto, amandola piano, dolcemente, come nessuno l’amava più da tempo?

 “…perché se

 stai svanendo, io non ci riesco a stringere più a fondo…”

 Si infilò l’accappatoio alla meno peggio, mentre apriva la porta senza sapere cosa aspettarsi. L’avrebbe presa per il collo o l’avrebbe baciata come in uno di quei film melensi da adolescente? La sua testa la supplicò di non aprire mentre il suo basso ventre le intimò di abbandonarsi al destino. Obbedì al suo istinto e sfoderò il più languido degli sguardi.

– Ahem… veramente sarebbe un po’ tardi, potrebbe abbassare signorina?-  chiese la vecchietta del piano di sopra. Aveva pure fatto due rampe di scale a piedi, che l’ascensore era rotto. Veramente aveva provato a chiamarla, ma al telefono non rispondeva. Si scusò, mortificata, – è che stavo facendo il bagno e non potevo rispondere –  disse, – mi scusi tanto. Sì, adesso spengo. Sì, buonasera- .

Quando si chiuse la porta alle spalle, si sentì tremendamente stupida. E fragile. E sola. Ricacciò una lacrima indietro, ci mancava anche l’autocommiserazione, non era stata già abbastanza una serata di merda. Si precipitò in salotto, per chiudere quella maledettissima tenda e rimase immobile, interdetta, nel bel mezzo della stanza. Sbatté più volte le palpebre, per sincerarsi di aver visto bene.

La tenda era chiusa.

Lo stereo, in compenso, andava ancora.

“…ora che sotto ho il mondo, vorrei che tu fossi qui

che fossi qui…”

Lo spense, strappando rabbiosamente la spina dalla presa di corrente. Si accasciò a terra, scoppiando a piangere.