Chef Confidential- capitolo 2

Badate bene, il titolo è provvisorio e se questo diventerà un vero romanzo, con un inizio e una fine (e soprattutto una trama) non si chiamerà certamente così. Ma è un po’ presto per dargli un titolo definitivo e avevo bisogno di raggruppare tutte le diverse parti sotto un’unica categoria, in modo da permettere a chi si perde un pezzo o magari inizia a leggere tra un po’ di non diventare matto a trovare quel che gli manca. Fate conto che non ho nemmeno idea di cosa succederà ai personaggi da qui a stasera. Che per me scrivere è così: non sono io che penso, ma le parole guidano le mie dita sulla tastiera. Goran e Diego si evolveranno a seconda di cosa mi influenzerà durante la giornata e qualsiasi stimolo potrebbe essere una fonte di ispirazione, uno spunto, un’idea parallela per introdurre qualche nuovo soggetto.

Questo è un modo molto elegante e fumoso per declinare ogni mia responsabilità, nel caso non ci foste arrivati da soli eh.

E si, lo so. Lo so che avrei dovuto farvi aspettare un altro po’. Ma mi sentivo buona (sarà merito dello yoga??)

Enjoy.

Capitolo 2 –

Quando lavoravano insieme, poteva anche tirare il terremoto che non avrebbero fatto una grinza: tutto, nonostante gli imprevisti, la tensione, il caldo asfissiante, filava sempre bene. Era un caso raro in cui trovavano qualcosa per la quale discutere ancora più raro era che un servizio rallentasse o si piantasse. Tra di loro c’era un’alchimia perfetta; come in una coppia di amanti in cui l’uno intuisce e realizza i desideri dell’altro prima ancora che vengano espressi, così la comunicazione tra loro due viaggiava, bene e spesso, a livelli più alti rispetto al normale scambio verbale. L’uno eseguiva quello che l’altro aveva a volte solo pensato ma ancora non espresso: da dieci anni lavoravano assieme ed era impossibile immaginarli separati e se non fosse stata per la fama di donnaioli che precedeva entrambi si sarebbero potuti scambiare per una vera coppia di fatto.

Si erano conosciuti alla scuola alberghiera: Diego arrivava da una bocciatura al liceo classico e Goran era appena rientrato da Sarajevo, con le bombe negli occhi e il respiro sempre corto. Diego aveva notato da subito che in quel ragazzo timido, smunto e sperduto c’era qualcosa di diverso: una luce in fondo ai suoi occhi chiedeva silenziosamente aiuto e lui per i casi umani aveva come una specie di calamita. Nessuno si avvicinava a Goran: parlava poco e male l’italiano, i vestiti gli puzzavano di soffritto alla cipolla e strane spezie e veniva da un paese in guerra e per il riminese medio di peggio c’erano solo il garbino e il pranzo a casa dai nonni quando gioca la squadra del cuore.

Ma Diego era diverso. Lui detestava essere come gli altri, l’omologazione non faceva per lui e bene e spesso le sue decisioni fondamentali erano basate proprio sul’ assunto che una cosa, meno gente la fa, meglio è. Aveva quindi deciso che se nessuno voleva scambiare due parole con il nuovo arrivato, lui ci avrebbe fatto amicizia e così una mattina qualunque di un giorno di scuola qualunque si mise di fianco a Goran durante le ore di cucina: lavorarono per quattro ore e mezza senza scambiarsi nemmeno una parola e quando fu ora di pulire i coltelli e mettere via l’attrezzatura il bosniaco si voltò versori lui e gli sorrise. Diego colse la palla al balzo e gli domandò se nel pomeriggio avesse voglia di accompagnarlo a San Marino, che doveva comprare una nuova chitarra elettrica e aveva bisogno di un parere.

– Anche io suona.

– No, si dice “anche io suono“. Cosa, di bello?- l’altro mimò di picchiare ripetutamente dall’alto verso il basso. Diego annuì.

– Ah ah, drums! Ba-tte-ria!- scandì bene. – Mi farebbe anche comodo un batterista, che quello che abbiamo fa pena. Sei bravo?-

– Si, ab.. abbastanza. Da tanto che non gioco più… si dice giocare uno istrumento musicale?-

– No, si dice suonare. Suonare uno strumento.

– Io disastro con italiano.

– Eh, un po’ si. Ma con il tempo andrà meglio.-

– Già.- replicò l’altro e il suo sguardo si perse lontano, verso il mare. Verso casa. Stavano camminando verso la fermata dell’autobus, Diego l’aveva seguito senza nemmeno rendersene conto. Sarebbe dovuto tornare indietro, il suo motorino era parcheggiato appena fuori dalla scuola.

– Ti passo a prendere dopo, dove abiti?

– Io…- Goran sospirò, poi scosse la testa. – Forse è meglio se ci vediamo in centro. O qui davanti scuola. Casa mia no va bene.-

Diego fece un rapido calcolo: prendeva il bus numero 11 in direzione Riccione, quindi sicuramente abitava a Marebello o Rivabella o Miramare: posticini non proprio raccomandabili, soprattutto se hai una vespa truccata con pezzi nuovi di zecca e appena riverniciata.

– Uhm… e se venissi su a casa con me adesso? Mi risparmierei un giro. Ti va?

– Ma tuoi genitori no dice niente?-

Diego sorrise. – Miei genitori dice “ciao Goran, come va?” . Ok capo? Bene, allora vieni, ho il motorino a scuola. La strada è un po’ lunga, abito in campagna. Quando arriviamo puoi telefonare a casa per avvisare che non torni a pranzo, se vuoi –

– No, non bisogno.- si strinse nelle spalle. – Babbo torna da lavorare alle undici di sera.-

– Ristorante?-

– Si. Lava piatti e bicchieri. Avevamo bar a Sarajevo. –

Diego non chiese nulla della madre, ma come indovinando i suoi pensieri, Goran gli raccontò che prima della guerra insegnava italiano all’università di Sarajevo.

– Tutta famiglia di mamma venuta in Bosnia negli anni sessanta. Nessun parente rimasto qui. E nessun parente rimasto vivo là. Ecco perché io e babbo da soli adesso.

Improvvisamente, Diego si ritrovò la mente svuotata di ogni parola sensata. Tutto quello che gli veniva da dire gli sembrava stupido, inutile e scontato. Balbettò un mi dispiace tra i denti, senza guardarlo negli occhi. L’altro si strinse nelle spalle; lo faceva spesso.

– La guerra è così. Ma qui sarà meglio. Io sicuro.

Diego non avrebbe mai saputo da dove Goran tirasse fuori tutto quell’ottimismo, ma di una cosa era certo: quel ragazzo gli stava simpatico. Gli sorrise.

– Dai salta su, che ti porto a conoscere una bella banda di matti.-

– Tutti matti in tua familia?

– Oh sì. Dal primo all’ultimo. Vedrai.

E Goran vide. E amò quelle persone dal primo momento come fosse stata davvero la sua stessa famiglia: chiassosi, dirompenti, sopra le righe: nessuno a casa di Diego poteva essere considerato convenzionale. A cominciare da Archimede, suo padre, soprannominato da tutti Arcy: giornalista, saggista e musicista per diletto, come amava definirsi,vestiva in una maniera eccentrica e ricercata, fumava la pipa, era un uomo di spirito e, qualità sicuramente non da tutti, beveva come una spugna senza sembrare mai alterato dall’alcool. Sua madre, nonna Eva, era un’allegra ottuagenaria vedova e appassionata di musica lirica. Condivideva con il figlio la vena artistica e stravagante e l’amore per il tabacco Virginia e il whisky invecchiato quindici anni.

Anna, la madre di Diego, era una donna energica, rassicurante: mandava avanti la casa con energia e buonumore, gestendo le stranezze del marito e della suocera, cinque figli, un gatto con tendenze suicide e due golden retreiver che scorrazzavano in giardino mangiando ogni cosa capitasse loro a tiro, purché fosse sotto terra. Ci provarono per anni a piantare i tulipani in giardino, ma non ci fu niente da fare: i bulbi non facevano nemmeno in tempo a toccare terra, che erano già nella pancia di Obi e Wan.

– Perché i tuoi cani si chiamano così?- gli chiese Goran appena prima di entrare in casa.

– Nah, mio padre fissato con Guerre Stellari. Sì il film. Tra le altre cose. Questa sarebbe la fissa minore. Dai entra.

Lo avevano accolto come uno di loro, da quella prima volta in cui Diego lo aveva invitato a casa: non una domanda di troppo, né una pretesa di voler sapere la sua storia. Si era rilassato, si era sentito finalmente libero di tornare a respirare e non sarebbe mai stato abbastanza grato a quelle persone, per tutto l’affetto che gli davano gratuitamente da anni.

Pensava a questo, a quanto una guerra di merda gli avesse regalato un destino così incredibilmente e inaspettatamente bello e felice, nonostante tutto, mentre con la testa stretta in una morsa di dolore cercava di vestirsi il più in fretta possibile per non fare tardi al lavoro. Diego, a giudicare dalla fila di indistinte imprecazioni che provenivano dalla stanza accanto, doveva essere già sveglio. Decise di sincerarsene socchiudendo appena la porta della sua camera:

– Come va?- chiese piano.

– Va una merda- rispose secco l’altro e per Goran era la conferma che tutto era nella norma; in dieci anni di stagione, Diego non aveva mai risposto in maniera diversa e sicuramente chi aveva la sfortuna di conoscerlo da maggio a ottobre non l’avrebbe riconosciuto, incontrandolo in inverno.

– Che ore sono Goran?-

– Le otto meno dieci.-

– Che dici, andiamo a fare colazione?

– Direi, ho una fame astronomica.-

– Ti ordino i soliti due bomboloni, fogna, che tanto arrivo prima?

– Sei sempre così dolce… anche un cappuccio, grazie. A tra poco.

Il rombo della Monster di Diego riempì tutto il silenzio della mattina, lo accartocciò per bene e lo lasciò lì a leccarsi le ferite. Goran sorrise tra sé: avrebbe messo non una, ma entrambe le mani sul fuoco che l’amico avesse modificato apposta qualcosa nel motore della moto per poter fare il più rumore possibile, svegliando tutti quelli che potevano stare a letto, a differenza di loro, punendoli per il semplice fatto di avere il privilegio di potersi godere l’estate.

Quando il Maledetto entrò in cucina con un nuovo lavapiatti, questa volta tailandese, Diego alzò deliberatamente il volume della radio, lamentandosi poi di non sentire assolutamente nulla di quello che l’altro stava dicendo. Il risultato fu che il tricheco girò sui tacchi più indispettito di una zitella a un matrimonio e tutta la brigata di cucina accolse il nuovo arrivato tra scherzi, risate e goliardia gratuita.

– Coraggio Mai-Thai, ci sono due belle cassette di zucchine e una di fagiolini con il tuo nome sopra laggiù. Vai vai.- disse Diego al nuovo venuto. Dare soprannomi era uno dei suoi passatempi preferiti e stava diventando sempre più bravo: ogni cliente in sala ne aveva uno a sua insaputa. Guardò l’orologio, buttò giù un paio di Moment con una sorsata d’acqua e cominciò a impartire gli ordini a ciascuna delle postazioni. Il menu era complesso e i clienti dei gran rompicoglioni, come quasi tutta la gente che andava in vacanza.

Che lui poi non l’aveva mai capita, questa cosa che quando uno è in vacanza debba per forza diventare insopportabile: l’equazione “pago quindi pretendo” era corretta, ma era anche molto lontana da quella messa in pratica dal turista medio in Romagna, ovverosia “pago quindi ti rendo la vita impossibile, o gestore di una qualsiasi struttura ricettiva”. Il punto era che i turisti non diventavano esigenti perché pretendevano un buon servizio; Diego era fermamente convinto che la maggior parte di loro, una volta in vacanza, anziché godersi il riposo mettessero appositamente in atto un piano masochista ed autodistruttivo per rovinarsi le ferie. Altrimenti lui non riusciva a spiegarsele, tutte quelle mamme e/o mogli inacidite e perennemente nervose e isteriche, che prendevano male qualsiasi cosa, dalla crostata per la colazione che anziché essere alle albicocche era alle mele, alla posizione dell’ombrellone che non era abbastanza riparata e nemmeno abbastanza centrale, alle lenzuola in camera che erano bianche e invece loro le volevano a fiorellini blu e rosa. E non si capacitava nemmeno di tutti quei mariti o padri finti passivi, che le lasciavano dire e sbraitare senza far loro capire che forse fare una piazzata in mezzo a tutta la sala perché la cameriera romena aveva portato pane e marmellata al bambino, anziché pane burro e marmellata, forse era un po’ eccessivo. Davvero non aveva mai visto una banda di senza palle così numerosa come da giugno a settembre, negli alberghi e sulle spiagge di Rimini. Fosse stato per lui, li avrebbe inceneriti tutti: come diceva sempre Lidia, la maggiore delle sue sorelle, quelli così rubavano solo ossigeno a noi normodotati. E la cosa peggiore era che continuavano a riprodursi.

Anzi, si disse Diego mentre ultimava la linea per il servizio: la cosa peggiore era che lui doveva farsi un mazzo così per cinque mesi all’anno a cinquanta gradi sedici ore su ventiquattro per questi stronzi che manco erano in grado di godersi una vacanza. Roba da togliergli le cinque settimane sindacali di ferie all’anno e ridistribuirle equamente a tutti quelli che lavoravano nelle strutture ricettive di tutto lo stivale. Ingrati, viziati e spocchiosi. Per quanto amasse il suo lavoro, odiava tutti i turisti, eccezion fatta per le ragazze, i bambini e i cani: queste ultime due categorie le tollerava perché indifesi: non si erano scelti apposta una famiglia di merda, ci erano nati.

Scappò al bar per un caffè, lasciando a Goran l’ingrato compito di preparare il pranzo per il personale. Sapeva che gliel’avrebbe menata all’infinito ma doveva irrorare le sue vene di caffeina. Subito.

– Ciao meraviglia, me lo fai un caffè?- l’epiteto non era scelto a caso: Badra, la barista marocchina del turno di giorno, era una delle ragazze più belle che lui avesse mai visto e soprattutto non gliela dava: una ragione in più per starle dietro. Lei gli sorrise, mettendo in mostra una fila di denti perfetti, bianchissimi. Madreperla su sfondo d’ebano: da perderci la testa ogni volta e lui era sulla buona strada.

– Certo caro. Come butta?-

– Il solito. Caldo, casino, tutti rincoglioniti o quasi.

– Ho visto che è arrivato il nuovo lavapiatti.

– Si. Figurati se aspettavano che Josef si ripigliasse. Questo è tailandese: l’ho messo alle verdure, va come una palla di fucile. Qui tutto ok?

– Si dai. Un paio di bambini indemoniati, mamme isteriche al seguito. Una mi ha guardata quasi inorridita mentre mettevo la schiuma nel suo cappuccino. Volevo dirle che pelle scura non significa pelle sporca.- Badra storse un po’  il naso: era nata in Italia da genitori marocchini e viveva a Rimini da una decina d’anni, eppure viveva ugualmente l’incubo della discriminazione, soprattutto in estate e da parte delle donne ed era questo ad avvilirla più di ogni altra cosa. Poteva soprassedere al commento pesante dal cliente un po’ brillo, ma che fossero proprio le donne a nutrire più diffidenza e astio nei suoi confronti non riusciva proprio a mandarlo giù.

– Non ce l’hanno con te perché sei scura, ma perché sei bella.- le disse lui, avviandosi di nuovo verso la cucina e l’inferno del servizio. Lei sorrise, sfiorando appena con il polpastrello il bordo della tazzina dove si erano posate le labbra di lui. Labbra che, ne era certa, se solo glielo avrebbe permesso, l’avrebbero esplorata in ogni centimetro, senza nessuna pietà. E se c’era una cosa che voleva e non voleva allo stesso tempo e con la stessa intensità era proprio Diego: per quanto sarebbe ancora riuscita a resistere non lo sapeva, ma si augurava di arrivare indenne almeno fino a fine stagione.

– Alla buon’ora.- grugnì Goran scuro in volto, seduto sul bancone con un piatto di maccheroni  all’amatriciana fumanti. – Per te non c’è niente da mangiare, stronzo.-

– Guarda che ti viene un colpo se ti mangi quelle roba: ci saranno quaranta gradi qui dentro.

– Quarantasei Chef.- precisò Mimmo-Yoda, la bocca piena della stessa pietanza.

– Ecco, appunto. É meglio, se per me non ci sono.- sentenziò Diego, addentando una fetta di melone. Non mangiava mai a pranzo, soffriva troppo il caldo e lo stress. A rigor di logica, Goran sarebbe dovuto pesare circa trecento kg, per tutto quello che mangiava da mane a sera, invece se arrivava a pesare quanto lui era un miracolo. Lo guardò schifato:

– Te c’hai il verme solitario, altroché. Devi farti vedere da un dottore.- L’altro lo guradò, serafico:

– Invidioso. – disse, secco. Poi lanciò il piatto nel lavandino e alzò la voce: – dai oh, ci diamo una mossa che è mezzogiorno?!-

Diego sorrise, andandosi a posizionare di fianco a lui: era il suo secondo, ma era l’unica gerarchia della cucina a cui non aveva mai fatto molto caso: lui e Goran erano semplicemente loro. Ma nei confronti del resto della brigata, era un figlio di buona donna esagerato: ognuno doveva stare al suo posto, lamentarsi il meno possibile e correre come il vento.

Amava essere il capo: da quando era bambino aveva manifestato una spiccata attitudine al comando e nonostante non fosse il primogenito riusciva sempre a dirigere i giochi e da sempre era considerato un punto di riferimento in famiglia: se c’era da portare il cane dal veterinario ci pensava lui, se si voleva piantare qualcosa di nuovo nell’orto prima ci si consultava con lui, che era quello che, assieme alla madre, passava più tempo a curare le piante. E soprattutto, se c’era da organizzare una qualsiasi festa, era da Diego che si andava, dato che un po’ per il suo lavoro, un po’ per un carattere molto socievole conosceva mezza Rimini. Poliedrico, istrionico, creativo, irrequieto, iperattivo e anche piuttosto puntiglioso: non conosceva le mezze misure e non riusciva mai a suscitare una reazione neutrale in chi lo incontrava per la prima volta. Che fosse odio o amore a lui importava ben poco: quello che davvero gli interessava era non passare mai inosservato e ci riusciva davvero bene. Non riusciva a gestire una relazione stabile con una donna, nonostante qualche volta ci avesse provato e investito anche del tempo: il suo narcisismo, il suo voler essere sempre una prima donna e la sua innata tendenza all’infedeltà gli rendevano piuttosto difficile una qualsiasi storia a lungo o medio termine. Però era carismatico, affascinante e ci sapeva fare: alla soglia dei trenta si divertiva a fare lo stronzo con le donne e ogni volta si meravigliava quasi di come queste ultime riuscissero ad essere così masochiste da cascarci sempre. E mentre lui, bastardo fino al midollo e irriverente come pochi aveva la fila fuori di casa, uno come Goran, che di difetti non ne aveva uno nemmeno a volerglielo appiccicare per forza, non riusciva mai a rimediare una mezza storia nemmeno mettendosi a piangere in serbo-croato. Come due facce della stessa medaglia, per quanto uno fosse primadonna, l’altro riusciva sempre a mettersi in ombra da solo. E non era colpa di Diego, perché non c’era assolutamente competizione tra loro; semplicemente, alla vista di una donna, Goran regrediva alle scuole superiori. Il fiato gli si accorciava, la lingua si attaccava al palato, il suo sorriso irresistibile diventava tirato e innaturale e il suo proverbiale senso dell’umorismo lasciava spazio a frasi fatte, scontate e fuori luogo. Goran era un disastro e non a caso il Maledetto lo aveva soprannominato “il figa-mai”.

-La cosa più assurda è che non solo non gli hai spaccato la faccia, non ti sei nemmeno arrabbiato. Io lo avrei appeso al gancio da macellaio che abbiamo in cella, a quella palla di merda.- lo aveva rimproverato Diego una volta. Goran, serafico, aveva alzato le spalle con la solita noncuranza.

– Perché? Dopotutto ha ragione. Non ce la faccio mai con le donne, sono un imbranato.- Diego aveva alzato gli occhi al cielo, lanciando lontano il mozzicone di sigaretta.

– Ma tu non ti arrabbi proprio mai eh?-

– Dipende. In questo caso non ne vale la pena, è solo dispendio energetico.

– Sai, a volte vorrei essere come te.

– No balle. Tu ti piaci tantissimo così. Si vede. Ma grazie del complimento, tira su il morale.-

Era questo il suo bello: poteva risultare imbranato, arrendevole, impacciato, anche un po’ lento alle volte, ma per Diego l’amico aveva una qualità eccezionale che nessun altro possedeva e che sul serio gli invidiava tantissimo: Goran era una persona buona.

– La donna che non sarà così stronza da fermarsi alla prima impressione sarà la più fortunata tra tutte loro. Sappilo. – glielo disse a bassa voce, un po’ di fretta come si dicono a volte le cose importanti, quasi per paura che altri sentano e se le portino via. Goran lo fissò, occhi azzurri dentro occhi neri, con quello sguardo pulito, sincero, onesto; quello sguardo che era sempre lì, ma a cui pochi sembravano dar valore.

– Insomma mi stai dicendo che tu nel frattempo me le selezioni, giusto?-

Scoppiarono a ridere entrambi, come solo gli amici veri, o i fratelli, sanno ridere.